Il neo sopra le labbra

C’era una volta un piccolo neo che sostava sopra un paio di labbra. Era, costui, una cosa piccolina, eppure tanto grande da essere fondamentale perché tutto il paesaggio visivo in cui aveva residenza assumesse una ben determinata configurazione, una precisa atmosfera, una circoscrivibile ambientazione; esso emanava un alone di beltà fascinosa di cui godeva l’insieme degli altri connotati. Se quel volto aveva potere di seduzione era perché da quel neo si irradiava una serie di cerchi concentrici capaci di seminare un’emozione di bellezza particolare e ineffabile.

Quell’esserino scuro e tondo aveva una particolare personalità.

Nel piccolo neo infatti coabitavano due nature.

La prima era quella di una bambina, affettuosa e dispettosa assieme, autoritaria, generosa, per cui le cose gravi dei grandi, compreso il sesso, erano buffe e facevano ridere. Una bimba dolce che sghignazzava gonfia di ilarità, e a cui a volte la voce si faceva sottile come quella di un topolino e che, quando raccontava qualcosa, tendeva a inzuppare le parole di una ingenua lamentazione, come a pretendere rassicurazioni dal suo interlocutore. Questa insomma era la bambina.

E poi vi era l’altra natura, quella di una donna molto matura, malinconica, con la voce pesante, gravida di esperienze maturate in tutte le precedenti vite. Una signora che sfoggiava una intelligenza analitica al di sopra della media, e che di una cosa ne esponeva tutti i pro e i contro, ruotandola per tutti i lati e gli angoli, e da cui tirava fuori le uniche soluzioni efficaci affinché la cosa stessa fosse risolta al meglio. Impressionava la sua proprietà di linguaggio, e rapiva quel silenzio di attesa in cui per qualche secondo si chiudeva, come a ponderare l’affermazione ricevuta e restituirla sciolta dai vari nodi. Questa era la donna matura.

Ebbene, le due entità nel piccolo neo non si capivano. La bambina reputava la donna impreparata e noiosa, e di converso la vetusta dama credeva che la bambina fosse una sciocca piagnucolosa e una piccola incapace. Il neo, con dentro tale dissidio, spesso tradiva un suo non sentirsi all’altezza della situazione. Io non comprendevo bene perché quel neo vivesse un conflitto del genere, che ritenevo campato in aria, quando era evidente che godeva dei pregi sia dell’una che dell’altra natura, e che suo era il mondo intero, o perlomeno l’intero viso su cui era assiso; a volte gli dicevo: guarda che ti sbagli su te stesso. Lui mi rispondeva stizzito: tu non mi capisci.

Un giorno il neo sparì senza dire nulla. La sua scomparsa generò sul volto un senso immanente di vuoto e desolazione. Gli occhi, il naso, le sopracciglia, i denti, le orecchie, i capelli e il mento si chiedevano dove mai fosse finito, che gli fosse successo.

Un dente in particolare, un povero canino, si sentì preoccupato, e passava i giorni in apprensione, chiedendosi contrito quale pensiero angosciasse il suo amico per averlo fatto rintanare chissà dove; magari lo aveva folgorato una fatale perdita di fiducia in sé stesso? Oppure vi era un occhio esterno, dalla pupilla cattiva, che mirandolo più del dovuto lo aveva molestato e terrorizzato? Al dente sarebbe bastato sapere che stesse bene, nonostante in passato avessero avuto incomprensioni frivole, piccole bagattelle, certe puerili storie di gelosia e mancati rivolgimenti di parola, perché all’amico tanto bene comunque voleva, anche se il neo probabilmente neanche prendeva in considerazione il fatto. Il dente gli avrebbe voluto dire: qualunque cosa sia successa, non ti scoraggiare, non farti prendere dal panico, hai una famiglia su cui contare, degli amici che ti vogliono bene. Ci manchi a tutti e tutti noi abbiamo bisogno di te. Questa faccia ti aspetta!

Io, che sono un’unghia a modo, laccata di bianco, al servizio del mio signore che è il dito indice, ogni tanto andavo a grattare un pizzico di prurito sulle commessure delle labbra, e ne approfittavo per scambiare qualche chiacchiera col dente che vedevo giù di morale. Gli dicevo a mo’ di predica: che vai a intristirti per quel neo lì, che ha una natura caparbia? Tu gli comunichi il tuo anelito e quello o ti risponde con indifferenza, o con fredda cortesia laddove in virtù dell’intima frequentazione che c’è stata uno si aspetterebbe una parola d’affetto, oppure non ti risponde proprio un bel niente. Bel neo educato è quello lì! E anche se tornasse, mio caro canino, che ti credi? Che si piglierebbe la briga di elargirti almeno un sorriso in nome dei vecchi trascorsi che vi hanno legato? Macché. Continueresti per lui a essere un bel nulla, mentre magari a un capello della malora che fa il simpatico e che è in vena di sciocchezze frivole manderebbe più di un segno di favore. Ma per cortesia! Lascialo perdere, dai retta a me, fattelo cadere dal cuore e dimenticati di lui!

Ma lui mi rispondeva testardo che quanto andavo sciorinando erano tutte tentazioni dell’ego, di cui io ero l’evidente emissaria, e che se un giorno avesse rivisto l’amato amico ritornato al proprio posto non avrebbe certo chiesto di più alla vita, perché a lui bastava sapere che ci fosse e che stesse bene, e nient’altro, e che di soverchio si sarebbe soltanto limitato a scrutarlo ogni tanto di sbieco, da dietro la mucosa che lo ricopriva, per appurare che c’era ancora, integro e vivo com’era, perché solo questo contava: la presenza della sua figura. Coteste cose mi diceva quel dente sciocchino, e io potevo forse biasimarlo? Quel neo era una vera potenza della natura, e a volte sembrava che quella faccia si fosse formata, che avesse insomma preso vita da quel piccolo centro nevralgico di colore marrone scuro. Il Big Bang al principio non era forse piccolo quanto un punto?

Il neo tuttavia non tornava, e il viso assunse nel tempo un’espressione malinconica, di languida nostalgia. Un senso di depauperamento generale. E poi vogliamo dirla tutta? Il volto era diventato anodino, insignificante.

Aspettando che ritornasse, la mano destra ebbe un giorno l’intuizione di disegnarlo con una matitina. Ma non era la stessa cosa, pur la somiglianza fosse ineccepibile. Tutti vedevano che non era lo stesso perché, in fondo, ciò che caratterizzava quel neo non era la sua presenza fisica, ma una inestinguibile scintilla di vita, fatta di pesi e lievitazioni, di coerenze e contraddizioni, che gli bulicava dentro e che, sprizzando dai suoi pori, colorava tutto ciò che gli era dipresso vivificandolo.

Testo e disegni di Dario Faggella © 2025