Questa cittadina vanta un parco ampio che si fa largo per scaloni. Al suo fianco scorre un fiume che brulica di vita spumante, e che io mi metto sovente a contemplare appoggiato a una balaustra. La vita va osservata passare così, anziché viverla, non pare anche a voi? Questo parco è gremito di mosche a non finire, che non ti danno pace, eppure non le voglio togliere dalla mia mente, pur potendo con la forza della mia volontà, perché contribuiscono con la loro presenza al carattere forte e particolare di tutto il paesaggio.
Davanti il parco c’è un bar che fa anche i gelati. Quando prendo dei gusti alla frutta di solito si mette a piovere, come se alla cittadina dispiacesse la mia scelta; quando invece sul mio cono campeggiano creme di vario assortimento allora splende il sole e il cielo sorride di un azzurro cobalto.
Cammino per le vie solitarie di questo posto fantasma, ormai abbandonato dalla specie umana, privo di voci e di richiami; solo ogni tanto vedo passare un uomo in bicicletta vestito delle sole mutande, e io mi chiedo chi sia, che ci faccia nel mio sancta sanctorum urbano, da dove venga e dove vada, e perché urli frasi sconnesse e senza senso, e non trovo mai risposta. Potrei eliminare anche lui come con le mosche di prima, ma non lo faccio, perché sento comunque il bisogno di essere attraversato dal suo passaggio; mi è come indispensabile.
A volte mi fermo davanti un negozio di articoli da disegno; la vetrina sfoggia un campionario di penne, pennelli, tubetti di tempera dal ventaglio dei colori vasto e fascinoso, e blocchi di carta di ogni grammatura e di ogni grandezza, e io vorrei comprare tutto, ma una voce interna mi dice di desistere, che è tutto troppo caro e che i prodotti in realtà hanno una qualità scadente. Mi piace sentire questo desiderio consumistico frenato, messo in guardia, è una sensazione per nulla banale.
Salendo in alto, verso il centro storico, ci si può un attimo voltare per mirare dabbasso, in lontananza, uno spicchio di mare. Non sono mai sceso a vedere come sia, se c’è un porto, una spiaggia, o che so io, perché mi piace avere alle spalle qualcosa ancora da scoprire, da fantasticare. Amo conservare nella mia materia grigia spaccati inesplorati che mi rendano teso come una corda di violino sul legno pregiato delle mie voglie.
I manifesti affissi per questa cittadina sono tutti strappati e scoloriti, con la gamma cromatica uniformata al ciano. Sono i residui di una vita che un tempo era viva e fiorente, e che adesso invece è sotto l’incantesimo dell’entropia. Io cerco di riportarli a nuova vita con la forza della mia immaginazione, ma questa carta straccia permane nella propria disfatta. Ciò che è perso è perso e, ahimè, non si può più ritrovare.
La notte cala come un velo, qui dove sono io, e allora mi metto a guardare il cielo seduto su un muretto. Vedo due lingue di nubi aleggiare sospese, vaporose e tumide, e poco più in alto, da una parte, vedo tondeggiare fosforescente il disco della luna, e più in alto ancora ci sono due stelle luminescenti che brillano come se ci fosse un guizzo di vita nel loro epicentro, e tutto attorno un cascame di tenebre intricate che verrebbe voglia di passarci sopra una spazzola per districarle.
Potreste mai immaginare come vivo bene qui? Forse no. Voi, del resto, vivete nello spazio e compartecipate della materia. Forse pensate che stia farneticando. Forse credete che non sia io a parlare, ma le mie voci di dentro. In fondo non ha nessuna importanza.
Dopo che sarò morto di vecchiaia, il mio regno dei cieli sarà in questa cittadina, e non se ne abbia Gesù se rifiuto il suo giardinetto costellato di cherubini e margheritine benedette, ma io sto bene nel mio, mangiando un calzone, una pizzetta rossa oppure un panino comprato al forno, sapendo che l’indomani non devo ripartire, perché non ho più nessun posto in cui andare. Perché finalmente non ho nessun altro luogo verso cui fare ritorno.

Testo e disegni di Dario Faggella © 2025