Ero fondamentalmente un poeta, ma non riconosciuto dalla mia gente, che anzi mi vedeva come un impostore. Tenevo duro sperando un giorno di ricevere finalmente la mia corona d’alloro.
Una sera presi alcuni polverosi calepini dalla biblioteca di mio nonno per diverse mie ricerche letterarie. E mentre ero assorto nello studio, d’improvviso tutto mi parve limpido e palmare, anche laddove apparivano quei punti più nessili, difficili da sbrogliare. Compresi che se avessi studiato quando era l’ora di farlo, ovvero nell’età della gioventù, invece che andare per diporto con compagnie superficiali, allora avrei avuto molte più frecce al mio arco per affrontare le complicanze della vita artistica. Una condotta del tutto polita, come si conviene a un giovane satiro tutto compreso di armonie ed equilibri, sarebbe stata — come dicono gli antichi — daddovero l’ideale.
Ma a quel tempo ero scosso dagli impulsi ormonali della mia sventurata adolescenza, schiavo della mia impossibilità a vivere le normali consuetudini degli incontri amorosi in particolare, e di quelli sociali più in generale. Ero un sacchetto di plastica in balia del vento, e nella mia meta non vi era nulla di buono.
Forte di questa illuminazione, mi scrollai dalle terga il mio passato e il mattino dopo abbandonai quell’ingrata vallata. Per mesi vagai ramingo per le strade del mondo in cerca della mia buona stella.
Un giorno arrivai presso un villaggio di artisti. Ovunque in esso vi era arte e bellezza. Mi dissi: qui verrò finalmente riconosciuto come il letterato che sono! E mentre visitavo quel luogo di genio e inventiva, mi capitò di entrare nel palazzo dei cristalli della contrada, attratto da degli strali corruschi che vedevo sprizzare dalle vetrate dell’edificio.
Affisso sulla porta d’ingresso vi era un cartello con su scritto: «Cimitero vivente delle anime belle».
Dentro sbrilluccicava tutta una collezione infinita di monili di vetro prezioso e versicolore, e ogni cosa era fragile e diafana. La luce rimbalzava per ognuno di quei suppellettili preziosi, come all’impazzata, e io mi sentii ebbro di tutto quel feerico luccichio, lo sentivo sin dentro il sangue asprigno che mi circolava nelle vene. Una voglia di danzare mi salì dal pene fino alla gola.
E così mi librai in una scalmanata corea, preda di un panico voluttuoso e vorace, scordandomi che di fatto mi trovavo tra delicate cristalliere. E mentre danzavo forsennato, sbattevo contro gli scaffali e urtavo le mensole e rovesciavo i tavoli. Era tutto un frantumarsi, un rompersi, un esplodere in mille frammenti, e il bubbolio causato non era quello del normale infrangimento, bensì il risuono di urla strazianti, gravide di dolore, perché ciò che schiantavo in mille pezzi erano le essenze vitree delle anime buone che un tempo avevano abitato in quel paese, e che ora soffrivano perché da me rovesciate a terra e rotte; e intanto che le schegge si mischiavano tra loro, io continuavo a macinare sofferenza su sofferenza in quell’orgia di frammenti, e non riuscivo a fermarmi perché ero eccitato da quel baccanale di strazianti grida corali che echeggiavano nelle mie orecchie eccitando il mio spirito dionisiaco; non mi passava per l’anticamera della cucurbita che quel clamore straziante era invece l’espressione del dolore.
Poi di colpo rovinai sfinito a terra.
Mi ritrovai così in ginocchio, esausto, coperto di graffi e di sangue, in mezzo a un deserto di vetrini bianchi e spumeggianti. Ovunque un silenzio cavo. Ovunque rovine. E così anche nel mio cuore. Mi sentivo come svuotato.
Entrarono le prime persone attirate da quel chiasso e mi dissero: che hai fatto? Si formò presto una folla inferocita che mi trascinò fuori tirandomi per le corna, e i calci che ricevetti non vi dico. C’era chi gridava: ha infranto i cuori di cristallo delle nostre anime migliori, appendiamolo alla forca! Ma infine tutti decisero che era più appropriata la gogna per un impiastro come me.
Mi segarono i bei rami di ciliegio che vantavo sulla fronte e mi misero alla berlina nella pubblica piazza, con collo e mani costretti in una trappola di legno. I vecchi quando passavano davanti a me sputavano per terra, oppure bestemmiavano a mezza bocca. I fanciulli si divertivano a tirarmi frutti marci sul grugno. Ridevano, mi sfottevano, ancheggiavano scimmiottandomi. Che pena che mi faceva in quel momento l’umanità! La vidi finalmente per quel che era, sudicia e incattivita. Capii allora la malinconia che provò Cristo sulla croce nel vedere quella marmaglia vociante che schiumava di miseria e di mancata autoconsapevolezza. Io comunque li perdonai tutti, per via del mio cuore immacolato e intonso, ma loro no, loro non riuscirono a perdonare me.
E così, una notte, il più violento di essi mi prese da dietro e infilò la sua lama nel mio costato, la rigirò per bene sentenziando: muori, sporco fauno bastardo, e poi la estrasse via di getto. Da quell’ugello nuovo di zecca fattomi sul fianco un fiotto di sangue agevolò l’uscita della mia anima sul terriccio, e quella ristagnò, mefitica, in una pozza di pece rossastra, per tutta la notte, accanto al mio cadavere. Poi al mattino penetrò la terra e scese giù nelle zone più immonde del pianeta.
A primavera rispuntai dalla crosta terrestre sotto forma di margheritina. Mi colse per squisita coincidenza il mio stesso assassino che, scoprendosi innamorato di una vergine della contrada, voleva sapere se fosse corrisposto. Staccava speranzoso i miei petali cercando la dolce conferma. Al diavolo il perdono! Mi adoperai con rigore assoluto perché sapesse, senza ombra di dubbio, che no, ella non lo ricambiava affatto.
Testo e disegni di Dario Faggella © 2025