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  • Cera una volta un piccolo neo che sostava sopra un paio di labbra. Era, costui, una cosa piccolina, eppure tanto grande da essere fondamentale perché tutto il paesaggio visivo in cui aveva residenza assumesse una ben determinata configurazione, una precisa atmosfera, una circoscrivibile ambientazione; esso emanava un alone di beltà fascinosa di cui godeva l’insieme degli altri connotati. Se quel volto aveva potere di seduzione era perché da quel neo si irradiava una serie di cerchi concentrici capaci di seminare un’emozione di bellezza particolare e ineffabile.

    Quell’esserino scuro e tondo aveva una particolare personalità.

    Nel piccolo neo infatti coabitavano due nature.

    La prima era quella di una bambina, affettuosa e dispettosa assieme, autoritaria, generosa, per cui le cose gravi dei grandi, compreso il sesso, erano buffe e facevano ridere. Una bimba dolce che sghignazzava gonfia di ilarità, e a cui a volte la voce si faceva sottile come quella di un topolino e che, quando raccontava qualcosa, tendeva a inzuppare le parole di una ingenua lamentazione, come a pretendere rassicurazioni dal suo interlocutore. Questa insomma era la bambina.

    E poi vi era l’altra natura, quella di una donna molto matura, malinconica, con la voce pesante, gravida di esperienze maturate in tutte le precedenti vite. Una signora che sfoggiava una intelligenza analitica al di sopra della media, e che di una cosa ne esponeva tutti i pro e i contro, ruotandola per tutti i lati e gli angoli, e da cui tirava fuori le uniche soluzioni efficaci affinché quella cosa fosse risolta al meglio. Impressionava la sua proprietà di linguaggio, e rapiva quel silenzio di attesa in cui per qualche secondo si chiudeva, come a ponderare l’affermazione ricevuta e restituirla sciolta dai vari nodi. Questa, dunque, era la donna matura.

    Ebbene, le due entità nel piccolo neo non si capivano. La bambina reputava la donna impreparata e noiosa, e di converso la vetusta dama credeva che la bambina fosse una sciocca piagnucolosa e una piccola incapace. Il neo, con dentro tale dissidio, spesso tradiva un suo non sentirsi all’altezza della situazione. Io non comprendevo bene perché quel neo vivesse un conflitto del genere, che ritenevo campato in aria, quando era evidente che godeva dei pregi sia dell’una che dell’altra natura, e che suo era il mondo intero, o perlomeno l’intero viso su cui era assiso; a volte gli dicevo: guarda che ti sbagli su te stesso. Lui mi rispondeva stizzito: ma statti zitto.

    Un giorno il neo sparì senza dire nulla. La sua scomparsa generò sul volto un senso immanente di vuoto e desolazione. Gli occhi, il naso, le sopracciglia, i denti, le orecchie, i capelli e il mento si chiedevano dove mai fosse finito, che gli fosse successo.

    Un dente in particolare si sentì preoccupato, si chiedeva contrito quale pensiero angosciasse il suo amico per averlo fatto rintanare chissà dove; magari lo aveva folgorato una fatale perdita di fiducia in sé stesso? Oppure vi era un occhio esterno, dalla pupilla cattiva, che mirandolo più del dovuto lo aveva molestato e terrorizzato? Al dente sarebbe bastato sapere che stesse bene, perché all’amico tanto bene comunque voleva. Gli avrebbe voluto dire: qualunque cosa sia successa, non ti scoraggiare, non farti prendere dal panico, hai una famiglia su cui contare, degli amici che ti vogliono bene. Ci manchi a tutti e tutti noi abbiamo bisogno di te. Questa faccia ti aspetta!

    Il neo tuttavia non tornava, e il viso assunse nel tempo un’espressione malinconica, di languida nostalgia. Un senso di depauperamento generale. E poi vogliamo dirla tutta? Il volto era diventato anodino, insignificante.

    Aspettando che ritornasse, la mano destra ebbe un giorno l’intuizione di disegnarlo con una matitina marrone scuro. Ma non era la stessa cosa, pur la somiglianza fosse ineccepibile. Tutti vedevano che non era lo stesso perché, in fondo, ciò che caratterizzava quel neo non era la sua presenza fisica, ma una inestinguibile scintilla di vita, fatta di pesi e lievitazioni, di coerenze e contraddizioni, che gli bulicava dentro e che, sprizzando dai suoi pori, colorava tutto ciò che gli era dipresso vivificandolo.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2025

  • Ogni volta che potevo, io sgusciavo via alla chetichella, come un favorito della luna, da una realtà fittizia e consunta, solo per vedere un suo spettacolo. Camminavo a passo veloce, nonostante le mie giunture ormai scricchiolanti, rasente il muro, come un ricercato, mentre mi lasciavo alle spalle i poster che annunciavano stentorei il suo show.

    Tanti erano gli ammiratori che la acclamavano; le mani che la applaudivano scrosciavano come pioggia; le urla, gli strepiti, i clamori si mischiavano in un tripudio orgiastico di ugole. In quel baccanale di rigurgiti primitivi io mantenevo la compostezza del contemplante.

    Nella mente la riconducevo al mito a cui apparteneva. Mi dicevo: lei è il punto di sutura tra l’800 e il 900. In quel cavo acquitrinoso lei è sorta mostrando un sorriso feroce e splendente come il dilucolo. Danza come preludio alla guerra mondiale. Lei è il principio di ogni grande guerra, è la celebrazione della nascita dell’immane conflitto. Riesco anche a vedere come si è generata.

    All’inizio vi era una piccola bolla d’acqua nera e viscosa su cui si rifletteva il firmamento. Come un germe quella bolla si è sdoppiata in due unità gemelle. In entrambe le calotte pulsava una luna nera attorno a cui giravano piccoli bagliori siderali. Sì, erano i suoi occhi. Attorno alla superficie languida delle sue iridi ho visto dilatarsi la sclera, da cui poi successivamente ho visto fuoriuscire le sue carni, i nervi, i muscoli, le ossa, il crine. Tutto ciò tracimava dal suo sguardo come lava da un vulcano e ogni elemento si fondeva all’altro fino a costituirne il corpo portante, sinuoso e selvatico. Così lei è venuta alla luce, generandosi dal suo sguardo.

    E mentre riflettevo su ciò, lei ballava nuda sul palco, con un mascherone da gran diavolo delle leggende crucche a coprirle il volto, o forse a mostrarlo nella sua forma più autentica, quella di un gemito preistorico che rimbomba dalle viscere tenebricose della foresta nera per celebrare i penetrali della vita.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2025

  • In Breve incontro del ‘45 ho visto la protagonista della pellicola che si faceva il maquillage davanti a una toeletta. Era da tanto che non ne vedevo una. Mia nonna ce l’aveva e io da piccolo ci andavo spesso a giocare.

    Mi sedevo su questo sgabellino con al vertice un cuscinetto di raso rosa, e iniziava l’incanto. C’era uno specchio che restituiva ai miei occhi il mio ovale un poco deformato, e tanti cassettini da aprire con all’interno rossetti, ciprie, e strani cartoncini con dentro non so che. Sul ripiano in legno si contavano pettini di ogni forma e colore e io mi divertivo a far scorrere il pollice sui denti, e poi le spazzole, i fermagli, i pennellini, le spugnette, le spille, tante scatoline a conchiglia con all’interno altri frammenti di specchio e diversi pigmenti di terra.

    L’oggetto che più mi era a cuore era una scatoletta verdegrigio con una pompetta color corallo; ogni volta la strizzavo con gusto per assistere al buffo spruzzo che usciva dal piccolo sfiatatoio che la precedeva, e un profumo stordente mi intossicava e mi faceva tossire.

    Ma non approvavo che mia nonna si truccasse. Detestavo i suoi capelli tinti di un nero elettrico che sotto il sole faceva scintille; e pure le sue labbra molli, sfatte, cariche di un rosso vermiglio sgargiante, semplicemente mi ripugnavano. Le sue palpebre a stento reggevano l’intonaco ceruleo che vi aveva affisso sopra e mi pareva uno spettacolo patetico e insopportabile.

    Perché ti camuffi? La vecchiezza ha i capelli bianchi e l’incarnato grigio, le dicevo a mo’ di rimprovero sventolandole il dito ammonente, e lei rideva, con quel suo gracchiare di gola, e infine mi diceva: fatti i fatti tuoi, di queste cose non ti devi interessare.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Io sono un monofago. Questo non significa che mi cibo di un solo alimento come si trova scritto da qualche parte, bensì che mi piace mangiare da solo. È seccante per noi monofagi rispettare i ritmi dei commensali, reputiamo scandaloso aprire le fauci e masticare davanti ad altre persone. A me personalmente, poi, non piace nemmeno mangiare seduto perché mi è comodo invece masticare e deglutire in piedi, in quanto mi risparmia la fatica di sistemare, sparecchiare e ripulire piatti e posate.

    Ma oggi mi hanno costretto al pranzo di Ferragosto, insieme a non so che cugini e vecchie zie, cosa che mi ha frustrato fino a sentirmi male. Così a tavola ho preso a bere per fugare la noia ma, ahimè, ho iniziato anche a parlare e a dire un mucchio di sciocchezze per puro spirito di provocazione.

    Così mi sono intromesso nel discorso che verteva sull’importanza delle bestie da compagnia dichiarando che l’animale più stupido sulla faccia della terra era, a mio avviso, il cane. Un ragazzino più in là mi ha risposto meravigliato: «Ma no, è l’animale più intelligente».

    «No», l’ho allora contraddetto, «il più intelligente è la scimmia, il più stupido è invece il cane».

    Siccome non mi prendevano sul serio mi sono spiegato meglio: «Quale animale con un po’ di sale in zucca crederebbe con così tanto orgoglio all’importanza del proprio verso? Nessuno, neanche l’asino. L’unico animale che ha deificato il proprio emettere suoni è il cane, che abbaia ininterrottamente credendo che il suo latrare meriti l’attenzione degli esseri viventi, delle piante e persino delle stelle, che invece si mostrano totalmente indifferenti. Così, tutto convinto del valore del suo gridare invano, disconosce l’importanza del silenzio, virtù che in verità è propria degli esseri viventi intelligenti, come il gatto ad esempio, che miagola usando il verso medesimo solo come strumento, ovvero per comunicare: datemi da mangiare, aprite la porta, fatemi una carezza. Per il resto vive muto. Il cane no. Al cane passano tante sciocchezze per il piccolo cervello che ha avuto in dotazione e lui crede sia necessario urlarle tutte, ripetendole financo, per rimarcare il concetto vuoto. Avesse almeno il suo ruglio la bellezza del canto del lupo da cui è decaduto come un angelo scacciato! No, il suo scartavetrarsi la gola è secondo, per bruttezza, solamente allo strillo strozzato del gallo!».

    Tutte queste cose andavo dicendo senonché i miei commensali hanno preso inviperiti a difendere l’utilità dell’abbaiare del cane, cosa che me li ha mostrati per quelli che erano, dei meschini borghesi, e allora gliel’ho detto, ché tanto il vino aveva sciolto le briglie del mio sproloquio, così i miei famigliari mi hanno portato via riempiendomi di contumelie per la brutta sortita del pranzo.

    Giunto a casa, gonfio di alcol, mi sono buttato sul letto per dormire di un sonno brutale. Nel sogno che si è sviluppato da esso mi ritrovavo supino su una trave di legno sospesa nel vuoto e mi dicevo: «Devo andarmene da qui o morirò». Ma ecco arrivare un grosso cane che, tutto silenzioso, mi si avvicinava da altre travi sospese per l’aere e mi puntava quindi il muso tubolare sul mio viso, senza emettere un solo ringhio, e mi pareva che mi opprimesse e mi facesse suo. Allora gli dicevo: «Non parlerò mai più male dei cani, te lo prometto, ma lasciami andare». Quello però mi dominava silente col solo puntarmi il nero naso umido addosso. «Te lo giuro», gli dicevo frignando ancora, «d’ora in poi dei cani esalterò solo l’infinita sapienza!». Allora la grossa bestia se ne è andata con passo superbo, dandomi la possibilità di alzarmi in piedi sulla trave su cui ero costretto e però precipitare subito dopo nel vuoto, sensazione vertiginosa che mi ha risvegliato in modo sgradevole.

    Avessi mangiato un panino per conto mio, capite bene, avrei di certo passato un Ferragosto più che decente.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Ho lasciato la finestra di casa aperta e quando sono rientrato ho scoperto che per quel passaggio si erano infilati parecchi gatti randagi. Non sono riuscito a cacciarli, ogni volta si nascondevano bene negli angoli delle stanze; poi hanno preso padronanza.

    Il loro passatempo principale era rovesciare gli oggetti dagli scaffali, dalle mensole, dai ripiani, dai tavoli, dai mobili. Due colpi di zampa e qualcosa si ritrovava per terra. Ho passato notti intere cadenzate dal rumore di roba che rovinava sul pavimento. Io poi ci camminavo attraverso, a volte la calpestavo, non me ne importava più molto.

    Solo i loro occhi che mi scrutavano al mio passaggio mi destavano un po’ di disagio; mi fissavano con le pupille sgranate, l’iride contratta, e la muscolatura dei loro corpi elettrici tesa, come se fossi una possibile minaccia.

    Questo all’inizio, poi hanno preso a darmi le spalle.

    Il fetore che c’era della loro piscia era mefitico.

    Avrei dovuto riprendere in mano la situazione, ma questi gatti si sono fatti via via più insolenti e aggressivi. Una mattina, infatti, ho fatto per alzarmi dal letto e uno di loro mi ha soffiato. Ho riprovato ed ecco il ruglio isterico di gola proveniente da un persiano sul mio comodino, seguito da una vigorosa soffiata, a bocca spalancata, come a mostrarmi la perniciosità dei suoi denti acuminati.

    Ero costretto a letto da una minaccia persistente.

    A volte mi passeggiavano sopra il corpo supino, oppure mi si acciambellavano accanto. Ero sotto la loro tirannia.

    Un giorno ho preso coraggio e mi sono alzato nonostante gli striduli avvertimenti; neanche due passi e sono stato inghiottito da un micidiale nugolo felino. Ero ricoperto dai loro corpi pelosi e tesi, falcidiato dai punteruoli delle loro fauci e dai ganci dei loro arti a molla, le mie orecchie erano violate dalle loro strida di guerra, e mi urinavano addosso per controfirmare il loro attacco. Poi, stremato per terra, sbrindellato e scorticato per bene, ho sentito gli stessi miei aguzzini annusarmi morbosi con i loro nasi bagnati, e dunque hanno pigliato a leccarmi le ferite, a darmi sollievo con il balsamo delle loro lingue raspose e taumaturgiche.

    Allora sono uscito di casa a carponi, trascinandomi, con i loro queruli miagolii di dietro a salutarmi, e sul marciapiede ho ripreso pian piano a camminare.

    Da lontano vedevo tutti questi gatti fissarmi silenti, sornioni, senza neanche una facella di vita a vibrare negli opali vitrei dei loro occhi baluginanti.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Per questi lidi il verde e il giallo si contendono il territorio, l’orizzonte cilestrino promette il paradiso ai buoni cristiani del paese e la notte i grilli accordano il loro frinire col bruire oscuro del venticello crepuscolare che si struscia contro le fronde degli alberi inquieti.

    Mio figlio costruisce qui i suoi ricordi che da adulto lo consoleranno nelle dure prove del destino, pascendosi nella dolce vacanza estiva. Lo vedo dal vetro sporco della finestra che cammina solitario in mezzo a una colonia di gatti famelici mentre gli racconta i suoi segreti, li chiama per nome, agitando con dolcezza una scatola di croccantini.

    Dopo qualche ora eccolo che entra nella mia camera da letto livido in volto. Io copro con una mano il disegno osceno che con diletto mi stavo destreggiando a delineare e dico serafico: «Che c’è?». Egli mi si avvicina teso, la piccola strozza che deglutisce, poi mi chiede conto di un mio misfatto, qualcosa che ho compiuto più di trent’anni fa.

    La vecchia vicina di casa, vedendolo così amabile dentro il nugolo felino, pare gli abbia detto: «Eh già, proprio il contrario di tuo padre sei tu, che alla tua età infilzò un povero micio con una canna». Mi chiede il buon figlio se sia vero quanto gli hanno riportato. È vero?

    A questa domanda così imperiosa io, che non amo mentire, non posso che confessare: sì.

    Mi alzo dalla sedia come chiamato a rendere conto e mi siedo sul bordo del letto.

    Un delitto antico, che speravo fosse rimasto sepolto sotto i cardi e le erbe infestanti, non è stato invero dimenticato. Chi lo avrebbe mai detto che il mio giudice si sarebbe presentato dopo trent’anni sotto le spoglie di un bambino, del mio adorato figlioletto? Non è forse questa l’esperienza più severa della giustizia che, pur lenta, arriva inesorabile per tutti? E così, adesso, a distanza di tempo, la vita mi chiede conto di un’azione compiuta nell’era dell’incoscienza e che mi ero spazzolato di dosso, ma invano, ché su questa Terra, mi rendo sempre più conto, non vi è azione che si perda nelle spirali della dimenticanza.

    Tutte queste considerazioni disegnano il mio sgomento, il mio sentire che non ho scampo, che proprio tutto mi verrà passato al setaccio e che niente mi verrà risparmiato.

    «Ero un bambino quando è successo», gli dico cercando di giustificarmi come è costume di ogni colpevole, non considerando che anche il mio giudice è un fanciullo, «giocavo a cacciare i gatti del paese con una canna in mano. Non avevo intenzione di ucciderli», mi rovello a trovare attenuanti, «credo mi divertissi solamente a rincorrerli».

    Egli, seduto accanto a me sul ciglio del letto, poggia il piccolo capo pesante sulla mia coscia.

    «C’era questo gatto su cui una mattina mi incaponii, lo rincorsi per i prati, i turriti, le campagne gonfie di graminacee, ripromettendomi che non avrei smesso di corrergli appresso finché non lo avessi fatto mio».

    E poi?, vengo incalzato.

    «E poi quella povera bestia entrò maldestramente nel cavo di un muro a secco, senza possibilità di fuga. Io ero davanti all’animale con la canna in mano e l’osservavo mentre alternava soffi minacciosi a queruli miagolii. Dopo un poco lo passai da parte a parte, ma non so dirti perché».

    Egli piange scorato, piange singhiozzando, spingendo il viso sulla mia coscia. Con la mano gli accarezzo i capelli, faccio scorrere le dita per i suoi stopposi ciuffi premendo morbosamente il suo cuoio capelluto, come a consolarlo, come in realtà a chiedergli l’assoluzione.

    Questa mia mano che ora melliflua si esprime con dolcezza non è la stessa che piccolina impugnò quella canna fino a tingerne la punta di rosso? Questa mano senza vergogna. Immagino che potrei amputarmela con la mannaia affissa al magnete giù in cucina. Penso però che dovrei dare un colpo secco e deciso, per separarmene di netto, un colpo insicuro che recide a metà mi farebbe orrore e senso. Ma dopo essermene mozzata una, come farei ad agire ugualmente con l’altra?

    E mentre mi lambicco il cervello su come trovare un espediente per amputarmi anche la sinistra, il figlioletto alza il muso impiastricciato di muco e lagrime e mi fa: «Ho capito, non sapevi quello che facevi». «Mi dispiace», gli dico. «Va tutto bene», mi rassicura. Poi esce dalla camera accompagnato dal mio silenzio di pietra.

    È andata bene, sono stato assolto, mi dico. Ma di sotto lo sento ancora piangere, più forte, più disperato, come se non prendesse pace. Questo pianto in lontananza, attutito dalle pareti della stanza, mi scuote le viscere. È un pianto fantasma che si imprime nella mia corteccia cerebrale. Questo pianto duraturo, che pare non trovare mai requie, è un pianto panteistico, che ha viaggiato per il tempo e per lo spazio, fino ad arrivare qui per rimbombarmi nella testa. Esso si mostra essere, in definitiva, la mia condanna.

    Ero solo un bambino, continuo a giustificarmi con me stesso, sono innocente, sospiro ottuso, eppure odo implacabile il verdetto finale che recita la mia colpevolezza proprio in quei gemiti lontani che appartengono a tutto il dolore del mondo che piange inconsolabile l’assassinio di una sua creatura.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Come diavolo uscì questa storia che parlavo male, non lo so. Iniziarono a farmi presente che, okay, forse non era il caso di parlare come in un romanzo americano, o che so io, perché sembravo ridicolo. Ma perché, cacchio, vi pare che io parli come se fossi in un romanzo americano? Non credo proprio, dico io. Io mi esprimo come viene, e se non vi sta bene potete anche non ascoltarmi, Cristo santo.

    Ma poi mi avete mai sentito dire cose come «Hey, amico» e compagnia bella? Gesù, potete giurarci che non mi avete mai sentito parlare così, ma che vi prende, eh? Mi avete mai sentito dire «Come te la passi, fratellino»? Ma fatemi il santo piacere.

    Be’, sta di fatto che un bel dì cominciarono a tirare fuori questa storia schifa che parlavo come un personaggio da commedia americana, e mi ci prendevano pure in giro, quegli intelligentoni. Mi facevano: «Pivello, porta a sedere il tuo fottuto culo americano in mezzo a noi», mi scimmiottavano quei fenomeni dei miei amici, capito? E io non ho mai usato la parola «fottuto» in nessuna dannata frase, vi rendete conto? La gente è uscita fuori di cervello, dico io, oppure si annoia, Cristo santo, e inventa balle su balle per non crepare di noia. Ma se credono che io sia il loro diversivo, si sbagliano di grosso quegli allegroni, che Dio se li mangi a colazione.

    Be’, non se ne uscì così pure quel nazionalista fascistoide del mio vecchio con il suo riprendermi per il mio dannato modo di esprimermi? Eravamo a tavola e mi fa: «Figliolo, sei italiano, siine fiero, buon Dio, perché ti esprimi come se fossi in uno stramaledetto film americano?». Be’, forse non sono state proprio le parole esatte che ha usato, vattelapesca adesso, ma il succo del rimprovero era quello lì. E io: «Ma che cacchio ti inventi, pa’? Non ti entra in quell’orecchio che parlo in uno stramaledetto italiano qualsiasi?». Per poco non mi faceva cadere dalla sedia, e potete giurarci, per gli sganassoni che ha cominciato a mollarmi addosso. Che il diavolo se lo porti.

    Fu così che mi cucii la bocca e non parlai più. Gliela feci proprio vedere, ragazzi, potete vendervi l’anima che fu così.

    Iniziarono a dirmi: «Che ti prende, amico, il gatto ti ha mangiato la lingua? O te la sei inghiottita?». E io muto. Alla fine a forza di non spifferare mezza sillaba ho ammutolito pure loro, li ho fatti rimanere tutti a bocca asciutta!

    Non mi dispiaceva il silenzio che mi portavo a spasso, se proprio volete saperlo, pure a casa lo stare muto mi toglieva parecchie grane di torno, ma mica siamo dei pesci, no? Siamo dei maledetti esseri umani, dico io, e abbiamo bisogno di dirla tutta, di raccontare cose, ed ecco perché oggi ho rotto il grande sciopero della parola e vi ho vuotato il sacco qui davanti, tutto intero com’era. Che buon pro vi faccia, compagnoni.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Il mio piacere più grande lo ripongo nell’abbandono. Non intendo l’azione subita, del resto non provo né piacere né dolore nell’essere abbandonato; ho sempre lasciato fare e ogni volta mi sono trovato bene. Io intendo il piacere che provo nell’abbandonarmi da solo.

    Soprattutto quando sono ubriaco pesto, e sono stanco, laddove gli amici mi hanno lasciato al mio destino, e sono le 3 di notte, e non ce la faccio più a trascinarmi. Allora penso: ora mi accascio e mi abbandono. Dove capita. Mi sdraio su qualche lercio marciapiede, accanto a qualsivoglia immondizia, e mollo la presa.

    Difficile per me comunicare la delizia che provo nell’essere indifferente allo sporco del catrame, al mio divenire un cencio sozzo, senza alcun valore, buttato da una parte della strada; la voluttà per la perdita di ogni ritegno e per l’abdicazione alla mia forza di volontà. Chi mi legge potrà mai comprendere tale delizia?

    Di solito mi abbandono dando le spalle al cielo, come a escludere ogni possibilità di resurrezione. Sento un fischio continuo nella testa, dei costanti rombi di motore, un vociare sommesso, un grido rauco, lo scalpiccio di scarpe che calpestano il selciato, ma per me non costituiscono motivo di preoccupazione, solo un motivo ornamentale che riecheggia a vuoto nel mio orecchio.

    Mi sento completamente atrofizzato. Inizio con la mente a correre per ogni dove del mio corpo per vedere se riesco a muovere, che so, almeno un dito del piede, e con soddisfazione scopro che niente, è tutto fermo, come se corressi all’interno di un involucro secco, vuoto, come se fossi dentro una rigida bottiglia di vetro.

    Poi capita che qualcuno mi si avvicina e mi scuote e mi dice qualcosa. Allora per educazione gli rispondo col pensiero, ma solo con dei mugolii immaginati che non significano nulla neanche per me. Sento una mano che mi fruga nei vestiti, e io non ho alcun timore di essere derubato, lascio fare, non ho nulla da difendere, niente da proteggere, nessuna tensione dei nervi da esercitare.

    Sono un meraviglioso relitto riverso sull’asfalto nero di città. Ora lascio andare anche quest’ultimo barlume di coscienza, soffio sulla fiamma fioca del granulo di presenza a me stesso che mi è rimasta e mi addormento. Un’esigua lingua di fumo azzurra si disperde nell’aria.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Ieri mi è capitato un fatto di natura singolare. Compiendo il rituale della mia passeggiatina mattutina, camminavo svagato e con una rinnovata fiducia nella vita. Senonché, a un tratto, vedo un bimbetto alle prime armi con la posizione eretta, giulivo quanto me, trotterellare verso la mia figura. Ho pensato: «Costui deve avermi scambiato per suo padre».

    In realtà subito dopo ho capito che per il camminatore principiante io rappresentavo una cosa nello spazio, e nella fattispecie un appiglio a cui aggrapparsi per non capitolare.

    Va da sé, mi sono scansato. Il piccolo è finito carponi sul pavé.

    Non è bene prendere tali confidenze con bambini estranei, soprattutto perché ci vuol poco a ritrovarsi additato come il mostro di Düsseldorf, e in ogni caso tali insignificanti piccole cadute sono necessarie in quanto propedeutiche a quelle importanti nella vita adulta. Siccome sono molto intelligente, ho pensato tutto ciò in tre quarti di secondo, un istante prima di farmi da parte.

    Vedendo più in là la madre caracollarci incontro, non mi sono preoccupato del piccolo caduto e ho continuato a passeggiare per i fatti miei. Sua madre, tuttavia, ha pensato bene di arrestarsi a metà tragitto per lanciarmi un’occhiataccia. La sua mutria era un insieme di dispetto, incredulità e riprovazione. Io, in buonafede, ho ricambiato lo sguardo con un grosso punto interrogativo che mi lampeggiava sul capo, molto più grande della mia testa, se vi interessa saperlo. Ella, sempre basita, ha persistito nel suo muto rimprovero, ritenendo tale azione più impellente del soccorrere il figlioletto in panne, confermandomi il fatto che la capitolazione di quest’ultimo davvero non aveva alcuna importanza.

    Arrivati alla fine di questa storiella io lo so che vi aspettate da me una morale, ma cascate male, proprio come il bambinetto di cui vi ho contato sopra. Scanso con queste poche parole le vostre aspettative e tiro diritto per la via.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024

  • Questa è la storia di due amici che si ritrovano dopo vent’anni. Lui mi cerca tra la gente, a San Giovanni, e ogni persona che inquadra è una mia metamorfosi. Io lo riconosco sulla linea dell’orizzonte, la sua piccola sagoma nera e schiacciata che mi annusa a mezz’aria. Dobbiamo bere, ci diciamo, ancora prima di salutarci, ma Roma è cambiata, ubriacarsi buttati sul ciglio della strada come facevamo un tempo non è più possibile, il decoro urbano non ci vuole vedere col vetro in mano.

    E allora i due amici vanno al supermercato, svuotano una bottiglia di rum in due bottigliette di Coca, e si mettono a sbevazzare su una panca pubblica tra i locali gremiti del Pigneto.

    Il dialogo all’inizio è controllato, ci sono tante cose da dire, ma poi siamo come rapiti da qualcos’altro, non rispondiamo più di noi stessi, e iniziamo a manifestare scomposti i nostri reciproci sentimenti, prendiamo a barcollare tra la gente con una busta della Conad in mano, in cui custodiamo la spazzatura finora prodotta. Pisciamo in tutti i bagni dei locali, chiedendo il permesso con esagerata prostrazione, dicendo cose come: servo vostro, in cambio vi lavo i bicchieri, e siamo accolti ovunque con un sorriso, perché l’educazione anche se obliqua è sempre la benvenuta. Poi però i due amici si stancano di chiedere permesso, e iniziano così a urinare contro i muri, le ruote delle macchine, i cespugli, hanno nel didentro così tanti umori da espellere che l’intera cloaca urbana sembra non bastare a contenerli.

    A noi si aggiungono barboni e svitati, li attiriamo come mosche, perché siamo il collante dei diseredati della società; diamo guazza a sdentati e balbuzienti, e teniamo concioni infarcite di periodi sgrammaticati e senza senso. Finisce sempre tutto in discussioni futili, e da fuori siamo senz’altro un consesso di animali che si esprimono in versi sgraziati.

    Ma adesso dobbiamo proseguire il cammino, nella notte, e quindi ci allontaniamo, abbiamo dei piani che non posso rivelare, e Roma diventa sempre più scura, più desolata e disabitata. I due amici stanno errando sulla Palmiro Togliatti, per strade dissestate, tra anabbaglianti veloci che si stagliano sugli edifici sporchi e zone d’ombra in cui nidificano grumi di silenzio sospetto, e i due giovani uomini vanno con il loro ciaramellare vacuo che si disperde tra le schifezze del marciapiede.

    L’umidità ci si è infilata proditoria nella schiena, e ora siamo all’interno di una vasta area non illuminata.

    Si sentono voci belluine che ci richiamano da angoli remoti e bui, e ci diciamo: che vogliono da noi? I nostri soldi? La nostra carne? Ormai è tutto nero, come le nostre menti obnubilate, c’è solo freddo e miseria e i nostri piani sono falliti. Vorrei abbandonarmi sulla sterpaglia, è un buon posto per morire, dico, ma il mio amico mi incoraggia a non mollare, perché più in là brillano delle luci e non tutto è perduto.

    Questa è la storia di due falene che volitano insieme verso le luci della città.

    Testo e disegni di Dario Faggella © 2024