Orchidea e il papero dei cartoni animati

Me ne stavo seduto in un angolo della camera, con le ginocchia raccolte sul petto e gli stinchi stretti tra le braccia, il labbro inferiore trafitto dagli incisivi superiori, gli occhi vitrei, inespressivi, come se non stessero mirando la realtà prospiciente bensì qualche zona rarefatta della mente immersa in un bicchiere di anice.

Udivo come in sovrappensiero il chiocciare tremulo della gatta che mi si strusciava addosso; la percepii stancarsi e accovacciarsi accanto ai miei piedi, ne immaginai gli occhi serrati in due lineette, provai a emulare nella fantasia il suo farmi le fusa; ne accettai la dignità di esistenza solo come mio prodotto mentale.

Mi ricordai di Orchidea, la bella vicina di casa che mi diceva: cammini come Paperino, se mi vieni a trovare ti faccio provare un bel vestitino alla marinara. E io per farla ridere camminavo aprendo più che potessi le punte dei piedi, e lei emetteva dolci singulti e mostrava i denti.

Una mano mi scosse la spalla e subito corsi nel mio di dentro per spegnere tutte le terminazioni nervose che potessero riportarmi alla coscienza del mondo esterno; soffiai a pieni polmoni tutta la foschia di cui ero proprietario per farla ricadere come un velo sulla mia memoria. Ecco, mi dissi, ora vedo solo ombre, indistinguibili l’una dall’altra, così deve essere. Immaginai la mano staccarsi dalla mia spalla e tramutarsi in pipistrello, concentrai tutte le mie forze perché ne sentissi col pensiero il rumore frenetico del battito dei patagi, eppure un lamento esterno, come un pianto d’angoscia, tentava di sovrastare il prodigio della mia nuova proiezione. E un nome, il mio nome, giungeva al mio orecchio come un perentorio invito ai miei doveri di esistente.

Io non voglio un nome, mi dissi, e bestemmiai quello di Cristo per dispetto.

Sgomento, mi accorsi che stavo riconoscendo il timbro vocale che mi incalzava, e allora sfruttai il mio lieve acufene, mi ci nascosi dentro, divenni un tutt’uno con esso, e mi sentivo allora essere una crepa sottile e micidiale che tagliava a metà l’universo per intero. Provai ad agitare le mie ali, ma l’angolo su cui poggiavo la schiena, e da cui dipartivano i due muri della stanza, mi impediva l’azione; e dunque credetti fortemente che fossero le due pareti stesse le mie ali, e frullai con vigore quelle due giganti protuberanze fatte di mattoni, gesso e calce, e facevo un gran rumore col mio volitare a destra e a manca, un gran baccano, e infine vittorioso mi dissi: è fatta, ora me ne vado.

E invece nuove mani tornavano a scuotermi, nuove voci giungevano a reclamarmi, e io mi sentii infine così stanco che mi arresi. Che c’è?, chiesi seccato, e misi a fuoco il mio sguardo, e intorno a me diversi occhi preoccupati mi guatavano palpitanti, enfi di espressione. In me, al contrario, solo stizza e neanche un’oncia d’amore.

Testo e disegni di Dario Faggella © 2024