Mio figlio costruisce qui i suoi ricordi che da adulto lo consoleranno nelle dure prove del destino, pascendosi nella dolce vacanza estiva. Lo vedo dal vetro sporco della finestra che cammina solitario in mezzo a una colonia di gatti famelici mentre gli racconta i suoi segreti, li chiama per nome, agitando con dolcezza una scatola di croccantini.
Dopo qualche ora eccolo che entra nella mia camera da letto livido in volto. Io copro con una mano il disegno osceno che con diletto mi stavo destreggiando a delineare e dico serafico: «Che c’è?». Egli mi si avvicina teso, la piccola strozza che deglutisce, poi mi chiede conto di un mio misfatto, qualcosa che ho compiuto più di trent’anni fa.

La vecchia vicina di casa, vedendolo così amabile dentro il nugolo felino, pare gli abbia detto: «Eh già, proprio il contrario di tuo padre sei tu, che alla tua età infilzò un povero micio con una canna». Mi chiede il buon figlio se sia vero quanto gli hanno riportato. È vero?
A questa domanda così imperiosa io, che non amo mentire, non posso che confessare: sì.
Mi alzo dalla sedia come chiamato a rendere conto e mi siedo sul bordo del letto.
Un delitto antico, che speravo fosse rimasto sepolto sotto i cardi e le erbe infestanti, non è stato invero dimenticato. Chi lo avrebbe mai detto che il mio giudice si sarebbe presentato dopo trent’anni sotto le spoglie di un bambino, del mio adorato figlioletto? Non è forse questa l’esperienza più severa della giustizia che, pur lenta, arriva inesorabile per tutti? E così, adesso, a distanza di tempo, la vita mi chiede conto di un’azione compiuta nell’era dell’incoscienza e che mi ero spazzolato di dosso, ma invano, ché su questa Terra, mi rendo sempre più conto, non vi è azione che si perda nelle spirali della dimenticanza.
Tutte queste considerazioni disegnano il mio sgomento, il mio sentire che non ho scampo, che proprio tutto mi verrà passato al setaccio e che niente mi verrà risparmiato.
«Ero un bambino quando è successo», gli dico cercando di giustificarmi come è costume di ogni colpevole, non considerando che anche il mio giudice è un fanciullo, «giocavo a cacciare i gatti del paese con una canna in mano. Non avevo intenzione di ucciderli», mi rovello a trovare attenuanti, «credo mi divertissi solamente a rincorrerli».
Egli, seduto accanto a me sul ciglio del letto, poggia il piccolo capo pesante sulla mia coscia.
«C’era questo gatto su cui una mattina mi incaponii, lo rincorsi per i prati, i turriti, le campagne gonfie di graminacee, ripromettendomi che non avrei smesso di corrergli appresso finché non lo avessi fatto mio».
E poi?, vengo incalzato.
«E poi quella povera bestia entrò maldestramente nel cavo di un muro a secco, senza possibilità di fuga. Io ero davanti all’animale con la canna in mano e l’osservavo mentre alternava soffi minacciosi a queruli miagolii. Dopo un poco lo passai da parte a parte, ma non so dirti perché».

Egli piange scorato, piange singhiozzando, spingendo il viso sulla mia coscia. Con la mano gli accarezzo i capelli, faccio scorrere le dita per i suoi stopposi ciuffi premendo morbosamente il suo cuoio capelluto, come a consolarlo, come in realtà a chiedergli l’assoluzione.
Questa mia mano che ora melliflua si esprime con dolcezza non è la stessa che piccolina impugnò quella canna fino a tingerne la punta di rosso? Questa mano senza vergogna. Immagino che potrei amputarmela con la mannaia affissa al magnete giù in cucina. Penso però che dovrei dare un colpo secco e deciso, per separarmene di netto, un colpo insicuro che recide a metà mi farebbe orrore e senso. Ma dopo essermene mozzata una, come farei ad agire ugualmente con l’altra?
E mentre mi lambicco il cervello su come trovare un espediente per amputarmi anche la sinistra, il figlioletto alza il muso impiastricciato di muco e lagrime e mi fa: «Ho capito, non sapevi quello che facevi». «Mi dispiace», gli dico. «Va tutto bene», mi rassicura. Poi esce dalla camera accompagnato dal mio silenzio di pietra.
È andata bene, sono stato assolto, mi dico. Ma di sotto lo sento ancora piangere, più forte, più disperato, come se non prendesse pace. Questo pianto in lontananza, attutito dalle pareti della stanza, mi scuote le viscere. È un pianto fantasma che si imprime nella mia corteccia cerebrale. Questo pianto duraturo, che pare non trovare mai requie, è un pianto panteistico, che ha viaggiato per il tempo e per lo spazio, fino ad arrivare qui per rimbombarmi nella testa. Esso si mostra essere, in definitiva, la mia condanna.
Ero solo un bambino, continuo a giustificarmi con me stesso, sono innocente, sospiro ottuso, eppure odo implacabile il verdetto finale che recita la mia colpevolezza proprio in quei gemiti lontani che appartengono a tutto il dolore del mondo che piange inconsolabile l’assassinio di una sua creatura.

Testo e disegni di Dario Faggella © 2024